Da sinistra verso destra: David Cuartielles, Gianluca Martino, Tom Igoe, David Mellis, Massimo Banzi. Stando a quanto si dice, uno di loro pugnala alle spalle gli altri. PS: è quello che non porta la maglietta e preferisce il look Business Casual. – Immagine Via
Ho sempre trovato nella storia di Arduino un ché di romantico: in un luogo che è intriso della magia decadente di quella che era la sede dell’avanguardia tecnologica italiana, cinque studenti provenienti da parti del mondo diverse, lanciano un progetto (e un prodotto) che permette a persone di tutte le età, di sviluppare dispositivi e prototipi in grado di interagire con la realtà. Ad Ivrea la fenice è risorta. O forse no?
C’era una volta la buona informatica italiana…
Conservo ancora gelosamente a casa due tra i primi Personal Computer, si chiamano M20 (1982) e M24 (1983) e, sembrerà strano, sono italiani, Olivetti.
Nel 1986, Olivetti, è leader europeo nel nascente mercato dei Personal Computer e uno dei primi produttori al mondo. Olivetti non è IBM: è diversa, ma non “diversa” come lo è Apple al tempo. Google e altre società da sogno oggi offrono a ciascuno dei propri dipendenti (dall’impiegato al manager) ambienti piacevoli, salari eccellenti, convenzioni, asili nido, biblioteche, cinema e musica. Per l’azienda di Ivrea era così dagli anni ‘50. Adriano Olivetti basava il proprio pensiero (e soprattutto l’azione) sul concetto di comunità:
“La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica, giusto? Occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura.”
Inevitabilmente ad Ivrea bisognerà confrontarsi con la triste realtà. Il primo assioma della gloriosa Legge di Murphy dice: “Se qualcosa può andar male, andrà male.”, è inutile dire che, per Olivetti, nulla fu più vero. La recente storia di Olivetti è l’esempio calzante di pessimo management: Eccellenza e innovazione miseramente annientantate da colletti bianchi incapaci di cogliere opportunità di un mercato in crisi adolescenziale, come lo è l’informatica negli anni ‘90. Olivetti sta morendo.
Tra i resti di questa azienda che si trascina faticosamente nel nuovo millenio c’è la Casa Blu, una volta centro studi e ricerche, fino al 2005, sede di Interaction Design Institute. Ed è qui, che come una fenice, la tecnologia italiana rinasce ed è nuovamente differente, è democratica, aperta.
Arduino ❤ Open source.
Dieci anni fa realizzare un basilare progetto con un microcontrollore non era cosa comune, né economica. David Cuartielles, studente colombiano all’IDI, ha in mente un sostituto del BASIC Stamp, allora in uso nella scuola per progettazione di soluzioni interattive. Quel sostituto si chiama Wiring, che diventerà la base per il progetto Arduino.
Già nelle prime fasi del progetto l’idea è chiara: il nuovo microcontrollore deve essere economico, alla portata di tutti, a prescindere dall’esperienza che si ha nei mondi della programmazione o dell’elettronica, ma soprattutto Open: gli schemi dell’hardware sono disponibili al pubblico con licenza Creative Commons Attribution Share-Alike 2.5 e il software è libero (licenza GNU GPL, trovate il codice sorgente qui).
L’Interaction Design Institute chiude per assenza di fondi, ma i cinque non demordono.
Il progetto si espande e diventa un fenomeno sensazionale ed internazionale. Seguendo le meccaniche del business attorno ad i progetti Open Source (vedi le varie Red Hat, la Sun dei tempi d’oro), Banzi e compagni decidono di fondare Arduino LLC (negli Stati Uniti) per registrare il marchio.
Con il marchio registrato, nasce effettivamente un brand per il quale sarà necessario che qualcuno si occupi della produzione: Gianluca Martino ha nei pressi di Ivrea un’azienda, tale Smart Projects SRL.
La confezione del mio Arduino Uno con relativo “foglietto illustrativo” dove si può vedere “Manufactured under license from Arduino by SMART PROJECTS SRL”
Nel frattempo le cose vanno a gonfie vele. Il marchio registrato negli Stati Uniti dà, finalmente, ai cinque fondatori i ricavi che si meritano, dopo aver lavorato per lungo tempo senza budget o investimenti. Nel mondo, il progetto è lodato per il suo impatto nella comunità hacker e Open Source. In Italia, per la stampa, che fino al giorno prima ha ignorato ogni sorta di tema legato alla tecnologia (al di fuori delle vicissitudini di personaggi più o meno importanti sui vari social network), è un vanto all’inventiva e capacità produttiva del bel paese: le schede Arduino sono prodotte in Italia e vengono esportate (e apprezzate) in tutte le parti del mondo, è praticamente la rivincita del Made in Italy! Daje!
Eppure nel 2008, nel cammino del progetto, c’è qualcosa che si mette di traverso, Arduino LLC tenta di registrare il Trademark in altri paesi al di fuori degli States e, proprio in Italia, patria del progetto, c’è qualcuno che l’ha già fatto.
Una serie di sfortunati eventi.
Il marchio Arduino, in Italia, è detenuto da Gianluca Martino e in particolare da Smart Projects SRL, sì, proprio lui, il cofondatore e produttore delle schede. Qui si può trovare la registrazione fatta all’Uffico Brevetti e Marchi.
Gianluca dice ai suoi colleghi che la sua mossa legale è esclusivamente atta alla salvaguardia del loro progetto e, difatti, le royalties provenienti dal marchio Arduino in Italia vengono indirizzate verso i cofondatori e Arduino LLC.
Passano gli anni e le vendite dei microcontrollori aumentano a dismisura, così come le collaborazioni internazionali. Produrre in Italia non è più una priorità. Nel 2013 viene rilasciato l’innovativo (e non proprio Open Source) Arduino Yún.
ArduinoYUN, progettato in Svizzera e prodotto in Taiwan, da Dog Hunter, di cui è amministratore delegato Federico Musto (già vicepresidente di Red Hat, nonché proprietario di Gheo Sa, il distributore internazionale di Smart Projects, nonché detentore del 20% di Arduino LLC).
Circa un anno fa, nel 2014, Smart Projects interrompe il pagamento delle royalties ad Arduino LLC e, nel mese di novembre, Musto ne diventa presidente: di lì a poco, Smart Projects diventerà Arduino SRL.
Ci sono due Arduino e, date le vicissitudini rapidissime e intricate, non ci potrebbe essere più confusione.
In breve tempo, Arduino SRL pubblica il sito arduino.org, quasi clone dell’originale arduino.cc, nel quale vengono annunciati perfino nuovi modelli dell’ormai famoso microcontrollore. Il 23 gennaio 2015, Arduino LLC mette al lavoro i propri avvocati, facendo causa ad un bel po’ di gente
Cosa sta succedendo?
Alla Maker Faire di San Mateo, Arduino LLC (quelli orginali, capitanati da Massimo Banzi) annuncia una partnership con Adafruit, che produrrà le schede Arduino negli Stati Uniti, a New York. A quanto pare, i nuovi microcontrollori si chiameranno Genuino (e fu così che i giornalisti italiani smisero di parlare di “genialità italiana”).
The first Arduino.cc Arduino UNO made in USA #TeamArduinoCC @arduino @adafruit http://t.co/si9Hk1mmPj
— adafruit industries (@adafruit) 25 Maggio 2015
Stando alle dichiarazioni di Massimo Banzi alla Maker Faire, tutto quello che è successo non è nient’altro che un banalissimo insieme di “legal stuff” con quello che prima era il principale produttore di schede.
A prescindere dal fatto che la produzione non si sia interrotta e che il progetto che ha mobilitato e dato potere all’intero movimento dei Maker sia più che in salute, mi sento tradito da tutte le vicissitudini che hanno sconvolto tutto ciò che gira intorno al microcontrollore più popolare e democratico della storia.
Quello che sta succedendo a questo piccolo grande miracolo hacker forse non è tanto diverso da quanto accaduto ad Olivetti, tra trasferimenti della produzione all’estero, accordi, acquisizioni e confusione manageriale che sembrano avvenire per entrambi i volti di Arduino.
Il software libero e, successivamente, l’Open Hardware ci hanno insegnato i vantaggi della collaborazione, della libera condivisione di informazioni e conoscenza e, in un certo senso, del sempreverde detto “L’unione fa la forza”. Non è una questione di chi ha ragione e di chi ha torto, quanto una perdita della visione delle origini, da entrambe le parti.
Chi ci guadagna con questa scissione? Io? No. Voi? Neppure. La comunità Open Source? Neanche per sogno.